Magmatismo. In geologia, si intende con questo termine l’insieme dei fenomeni connessi alla formazione, all’azione e alla consolidazione dei magmi, al loro essere roccia fusa che rifluisce dal nucleo terrestre fino alla superficie, attraverso le sue vie di comunicazione naturali, le principali delle quali sono i vulcani. Nel contesto dell’arte contemporanea, il vocabolo intenderebbe costituire una classificazione critica, o meglio ancora autocritica (di artisti nei confronti di sé stessi o di altri colleghi), di valore identitario, variamente articolata sul piano concettuale, valida per un certo numero di esponenti del panorama nazionale.
Certo, l’aggettivo “magmatico” lo si potrebbe spendere serenamente per tanta e diversa produzione pittorica, specie di matrice non figurativa, ma non solo (Magnasco, Scipione, Soutine, non erano forse magmatici?); nel caso di Daniela Grifoni, artista fiorentina di nascita, ma figlia adottiva del Novarese (dove si è formata, vive ed opera, nella suggestiva cornice dell’ex-abbazia benedettina di San Nazzaro Sesia), bisogna ammettere che il ricorso all’analogia geologica si presta ottimamente a evocare e definire la sua pittura, tanto da essere da lei stessa rivendicato con convinzione, fino a diventare anche potenziale metafora di un impulso creativo non comprimibile, né altrimenti arginabile, un’eruzione, appunto, oltre che diretto riscontro visivo sul piano delle risultanti plastico-pittoriche delle sue opere.
Opere che a prima vista sembrerebbero comodamente assimilabili alle istanze generiche dell’Informale, nelle sue tante e diverse declinazioni storicamente codificate (dall’Action Painting di Jackson Pollock alla pittura gestuale di Hans Hartung e all’astrazione lirica di George Mathieu), tanta è l’intensità cromatica e dinamica del segno, tanto è lo spessore plastico della materia sedimentata sulla tela, ma ad un approccio più approfondito, esse rivelano una distanza netta con la matrice produttiva più emotiva ed istintuale, per non dire di qualunque altro automatismo psichico di derivazione surrealista.
Al contrario, il magma che occupa fisicamente le tele della Grifoni sembra piuttosto il risultato di un progetto razionale, definito a priori, cercato e governato da una tecnica che non si affida alla casualità, ma a una chiara disciplina compositiva.
Modellate anche con l’ausilio della spatola, o delle dita, le dense concrezioni di colore prendono forza dalle relazioni di contrasto cromatico sia con gli sfondi, spesso scurissimi, su cui si stagliano con effetto di sbalzo, sia per l’effetto dell’uso combinato di olio e acrilico, che amplifica notevolmente la gamma delle sfumature, creando un tessuto pittorico luminescente, sorprendentemente ordinato, in cui anche gli effetti di scolatura, ottenuti sfruttando la naturale forza di gravità della materia liquida, sembrano il prodotto di una precisa e consapevole volontà significante.
Non c’è dunque, nella pittura della Grifoni, il furor espressivo, lo stato di trance, da cui scaturisce, improvviso e incontrollato, il gesto creatore (“come un grido”, amava dire Georges Mathieu), quanto una sicura e sapiente gestione della materia pigmentata, della sua resa plastica, quasi scultorea, della sua potenza timbrica. E ci si immagina per le sue opere una fattura lenta, persino rilassata, in cui gli elementi plastico-pittorici vengono disposti e modellati sullo spazio della tela seguendo un ordine preciso, attendendo i giusti tempi di sedimentazione, come fossero gli elementi di una partitura musicale, una scrittura non ancora codificata, ma via via sempre più riconoscibile, segno dopo segno, quadro dopo quadro, in modo sempre più connotato.
Se per Mathieu il gesto pittorico era un grido, per la Grifoni è un sussurro.
E se la nozione comunemente condivisa di Informale suggerisce il caos dell’universo, il dolore confuso dei suoi abitanti, la loro incapacità di rappresentarlo e comunicarlo in forme diverse da quelle immediate, o la coscienza della sua sostanziale irrappresentabilità, le concrezioni magmatiche che Daniela Grifoni dipana sulle sue tele suggeriscono una direzione diversa, solo in parte coincidente con quanto appena detto, un tentativo di creare nuove forme codificabili per definire una sorta di inedito, inesauribile repertorio calligrafico con cui descrivere su un piano di simultaneità il mondo fisico e quello interiore.
Tutto, allora, si manifesta per logogrammi di materia fluida, vischiosa e incandescente, lava appena rappresa, in diretta, vertiginosa comunicazione con le profondità dell’animo umano.